5 febbraio 2010

L'esercito israeliano ha cambiato le sue regole per la guerra a Gaza

Un anno dopo l'offensiva israeliana su Gaza (27 dicembre 2008 - 17 gennaio 2009), mentre Israele sostiene la tesi di un'operazione conforme al diritto internazionale, alcune testimonianze esclusive, raccolte da Le Monde, gettano una luce sinistra sui metodi dell'esercito israeliano. Nel momento in cui Israele continua a rifiutare di aprire un'inchiesta indipendente sulle accuse di crimini di guerra formulati dal rapporto Goldstone, commissionato dall'ONU, queste testimonianze indicano che l'Alto Comando di Tsahal ha instaurato una procedura di apertura del fuoco molto permissiva rispetto alle regole ufficiali.
La controversia gravita attorno ad una formula-chiave del gergo militare israeliano: «emtza'im vé kavana» («i mezzi e le intenzioni»), un binomio familiare a tutti i soldati che codifica il loro comportamento in terreno ostile.
Secondo questa formula, un individuo viene considerato un bersaglio soltanto se è armato («i mezzi») e se manifesta un'intenzione di nuocere («le intenzioni»). Un memorandum destinato ai coscritti, datato 2006, che Le Monde ha potuto consultare, prescrive che «sparare su una persona armata è unicamente consentito se si dispone di informazioni concrete che indichino che questa persona ha intenzione di agire contro le nostre forze».
Ma nel mese di agosto 2009, davanti ad un giornalista del quotidiano Yediot Aharonot, un ufficiale superiore ha riconosciuto per la prima volta che queste restrizioni, fondamenti dell'etica militare israeliana, erano state rimosse durante l'operazione «Piombo fuso». «I mezzi e le intenzioni è una terminologia adatta ad un'operazione di arresti in Cisgiordania. L'esercito israeliano è venuto fuori malconcio dalla seconda guerra del Libano a causa di una terminologia inadatta. Il concetto di "mezzi e intenzioni" è figlio di circostanze differenti. Qui non si tratta di una classica operazione antiterrorista [...] La persona che deve azionare ordigni esplosivi non ha bisogno di portare un kalashnikov. Gli basta camminare, osservare, paralare al telefono e bum! Cinque soldati saltano in aria. [...] La differenza è netta».
L'inchiesta del giornalista di Yediot Aharonot non è mai stata pubblicata. Le parole dell'ufficiale, di cui Le Monde ha potuto prendere conoscenza, contraddicono la versione ufficiale che mette l'accento sul rispetto delle leggi militari e considera le morti di civili come «incidenti isolati», inevitabili di fronte ad un nemico pronto a nascondersi nelle zone abitate. «Se le parole dell'ufficiale descrivono effettivamente le regole di ingaggio in vigore durante l'operazione "Piombo fuso", allora si tratta di una prova che conferma le accuse contro Israele», dice l'avvocato Michaël Sfard, difensore dei Palestinesi. «"I mezzi e le intenzioni" sono i parametri secondo i quali una persona viene identificata come combattente. Rinunciare anche ad uno solo di essi equivale ad accordare una licenza di uccidere i civili», aggiunge.
I 22 giorni di offensiva si erano chiusi con un'ecatombe da parte palestinese (1385 morti, di cui 762 non combattenti, secondo l'organizzazione israeliana B'Tselem) e con la morte di 13 israeliani (10 soldati e 3 civili).
In luglio 2009, l'associazione israeliana Breaking the Silence aveva pubblicato una serie di testimonianze di soldati che hanno combattuto a Gaza. «Se non sei sicuro, uccidi», diceva uno di loro. «Ci hanno detto che è una guerra, e che in una guerra l'apertura del fuoco non ha restrizioni», spiegava un altro. Lo Stato Maggiore israeliano aveva immediatamente parlato di «campagna di diffamazione», assicurando che Tsahal è «uno degli eserciti più morali del mondo».
Secondo Mikhael Manekin, vicedirettore di Breaking the Silence, la confessione involontaria dell'ufficiale corrobora a posteriori le testimonianze raccolte. «Le regole di apertura del fuoco sono state radicalmente modificate. In alcune zone non ve ne erano proprio. Si tratta di una violazione della legge e del codice militare israeliano».
Un altro ufficiale incontrato da Le Monde spiega la logica soggiacente a questa deriva. Di stanza nel quartier generale di una brigata, proprio di fronte a Gaza, egli ha potuto osservare da vicino lo sviluppo dell'offensiva. «L'idea-forza era che Hamas non rispetta le regole del gioco, visto che i suoi militanti non hanno uniforme e non portano sempre le armi. Abbiamo allora deciso anche noi di aggirare le regole. I nostri comandanti precisavano che ciò non implicava il disprezzo della vita dei civili. Contrariamente a quello che afferma il rapporto Goldstone, io non penso che l'esercito abbia ucciso deliberatamente dei civili. Era chiaro, però, che noi dovevamo fare cifra; che da Saïd Siam (l'ex ministro degli interni di Hamas, ucciso in un bombardamento) al semplice impiegato di un'organizzazione caritativa, ogni membro di Hamas era un terrorista che meritava di essere ucciso. Era altrettanto chiaro che la protezione della vita dei soldati aveva la priorità», precisa l'ufficiale.
Secondo questo testimone privilegiato, il principio del rischio zero si è tradotto in una tecnica di messa in sicurezza del terreno in tre tempi. All'inizio, si inondava la zona di volantini che intimavano alla popolazione di partire in un dato lasso di tempo. Successivamente, si scrutava il terreno alla ricerca della minima presenza sospetta. A questo punto, se era il caso, si inviavano dei droni armati di missili. «I nostri parametri erano semplici – dice l'ufficiale. Un individuo di sesso maschile, che non è né un bambino né un anziano, che cammina per strada al di là dell'ora limite, diventa un sospetto. Conosco almeno un caso in cui questa verifica è bastata per tirare un missile su un palestinese. È soltanto dopo che l'agente dello Shin Beth (il servizio di sicurezza interna) ci dice se il missile ha ucciso la persona giusta. È il principio dell'assassinio mirato, ma al contrario. Prima si uccide, e poi si verifica che fosse giustificato».
In tutta risposta, l'esercito israeliano si riferisce a un rapporto del luglio 2009, intitolato «L'operazione a Gaza, aspetti pratici e legali». Secondo questo documento, le regole di apertura del fuoco durante l'operazione «Piombo fuso» stipulavano che «solo i bersagli militari devono essere attaccati» e che «qualsiasi attacco contro obiettivi civili deve essere proibito».

Benjamin Barthe

Articolo originale: http://www.lemonde.fr/proche-orient/article/2010/02/03/enquete-sur-les-methodes-de-tsahal-a-gaza_1300502_3218.html

1 commento:

enzo ha detto...

Un manipolo di pazzi delinquenti e sanguinari tiene in scacco il mondo intero, senza confini, senza differenze, dal polo nord alla Terra del Fuoco, dal Giappone alla California. E sono tutti d'accordo tra di loro. I popoli? Carne da macello e/o portafogli viventi.